Solo la morte non ha abboccato alla sua finta

A trent'anni dalla morte di Garrincha, occorsa il 20 gennaio 1983, così lo ricordava Roberto Beccantini.



Trent’anni fa se ne andava Garrincha. Era il 20 gennaio 1983. Morì male, morì solo. Garrincha, cioè uccellino. Il nome completo era Manoel Francisco dos Santos, detto Mané. Gli sono stati attribuiti tredici figli, tre mogli e svariate amanti, su tutte Elza Soares, ballerina e cantante: l’ultima, grande passione.

Nacque povero, il 28 ottobre 1933, in una favela di Pau Grande. Povero e storto, con la gamba destra più corta della sinistra a causa della poliomielite. Non è facile raccontarlo ai giovani: si rischia di scivolare sulla buccia dell’enfasi. Giocò nel Botafogo, fu campione del mondo due volte con il Brasile, nel 1958 e nel 1962. Ala destra. La più forte ala destra di tutti i tempi.


Il calcio è strano, ora settario ora democratico. Con Garrincha fu democratico. Aveva il cervello di un bambino, non superò i test psico-attitudinali ai quali lo staff medico della Nazionale aveva sottoposto i «convocabili» alla vigilia dell’avventura svedese. Garrincha. Quella finta, quel dribbling: gli avversari ci cascavano sempre. Aveva trasformato la gamba malconcia in una stampella letale: si appoggiava a essa per indurre in tentazione il terzino, poi caricato e coricato da un brusco cambio di direzione, «sintesi di velocità e di purezza» (Gianni Brera).

Non sono pochi, i brasiliani che considerano Garrincha più grande di Pelé. Non più forte: più grande. Pelé era la perfezione al governo; Mané, l’imperfezione all’estrema destra, intesa come spicchio di campo. Il massimo, nel suo genere; e in quel calcio. Garrincha, Didì, Vavà, Pelè, Zagallo: impossibile dimenticarli. 


In Svezia, Garrincha partì riserva e diventò titolare, come Pelé, nella terza e ultima gara della fase a gironi: contro l’Urss. In Cile, quattro anni dopo, Garrincha le giocò tutte. Non Pelé, infortunatosi contro i cechi, alla seconda, e rimpiazzato da Amarildo. Faceva segnare e segnava, Mané. Si bevve il mondo, Garrincha, prima di finire bevuto. Era un artista sbucato dal nulla, negato, per questo, a insegnare. Ogni volta, la stessa azione: postura ciondolante, finta, dribbling, cross o tiro. Ogni volta, lo stesso epilogo: lui padrone e noi umili sudditi.

Con Garrincha, il ruolo di ala ha demolito il muro delle convenzioni. Altri, tempi, d’accordo. Il Brasile «svedese» di Vicente Feola praticava il 4-2-4, con Mario Zagallo, l’ala sinistra, pronto ad arretrare sulla linea di Zito e Didì in caso di pericolo (dunque, 4-3-3). Oggi, le ali non volano più, o volano con le catene, costrette dalla tattica a spingere e respingere, a fare i terzini e i guastatori. Devono pressare e rientrare. Erano poeti, sono diventate impiegati che timbrano il cartellino. Il dribbling non viene più considerato uno strumento musicale, è stato disarmato e imprigionato. Se bussate, lo trovate in archivio.


Garrincha ci ha lasciato un calcio di un romanticismo struggente. Guardava negli occhi il destino e lo dribblava. Finché ha potuto, finché la vita non l’ha travolto. Solo la morte non ha abboccato alla sua finta.

Roberto Beccantini

Eurosport, 18 gennaio 2013