Roberto Bettega

"Lui è nel calcio italiano il seguito di Mazzola e Rivera ma con più garbo, meno teatralità"
(Vladimiro Caminiti)


Roberto Bettega (Torino, 27 dicembre 1950) | Leggenda

"Poliedrico fuoriclasse dalle alchimie tattiche, passa nel mondo del calcio come un esemplare affatto unico di conversatore affabile, non riuscirà a coronare il sogno di vincere né il Mondiale né la Coppa dei Campioni, vincendo tuttavia tantissimo, e sempre allaltezza della sua classe. Un atleta prodigioso, un calciatore che s’affaccia sui mondi avvenire".

Vladimiro Caminiti


Vizi e virtù di Bobby gol
Emanuele Gamba
("La Repubblica", 27 dicembre 2009)

C'è un dato indiscutibile nella biografia di Roberto Bettega, ed è la sua juventinità: un caposaldo della sua vita, e anche del suo carattere, mai messo in dubbio e attorno al quale c'è un consenso generale, assoluto. Bettega è juventino a trecentosessanta gradi. Penna Bianca o Bobby gol, come è stato chiamato quando ha cominciato a segnare e hanno iniziato a incanutirsi i capelli, è bianconero per estrazione familiare e poi per educazione sportiva dal giorno cui, ed eravamo all'inizio degli anni '60, il papà di Roberto, un operaio della Fiat di origine veneta, lo accompagnò a un provino per i pulcini della Juve. Ovviamente venne scelto (il "maestro" dell'epoca era una figura storica del club, Mario Pedrale) e da lì inaugurò la sua vita a strisce, interrotta soltanto dalla sua breve parentesi di calciatore in Canada (Toronto Blizzards, a fine carriera) e per i pochi periodi di "disoccupazione" tra la fine della carriera da calciatore e l'inizio di quella da dirigente e poi dalla fine della collaborazione con Blanc (giugno 2007) a domani, quando si insedierà ufficialmente come vice-direttore generale. Juventino tutto, e in tutto: nello stile, secondo chi lo apprezza, e anche nell'antipatia o nell'arroganza, a giudizio di chi invece non gli è sostenitore. In effetti, Bettega è sempre stata una figura un po' altera, circondata da silenzi ostinati, da rarissime concessioni alla diplomazia, o alla simpatia. Uno, in pratica, che ha sempre tenuto il mondo abbastanza distante, anche quando giocava: della mitica Juve degli anni '70 (e dei germogli della Nazionale che poi vinse, senza di lui, il Mundial '82) è stato un punto di riferimento incrollabile ma non certo il giocatore più amato dai suoi stessi compagni. Difatti, con pochi di loro ha mantenuto rapporti. E anche gli avversari, in particolare quelli del Toro, lo hanno detestato: ma questo è decisamente più normale, come era normale che venissero ricambiati. Del Bettega calciatore si ricordano l'eleganza e la potenza, la classe e la modernità (punta di movimento, quasi totale, quando gli attaccanti erano ancora centravanti d'area e poco altro). Le sue immagini storiche sono il gol di tacco a San Siro contro il Milan (gol alla Bettega, appunto) o il meraviglioso triangolo con Paolo Rossi per battere l'Argentina, nel 1978. Ma anche l'istantanea del tremendo scontro con il portiera belga Munaron che gli sbriciolò il ginocchio e gli impedì di accompagnare gli azzurri verso il trionfo spagnolo. Altre sfortune: l'infezione polmonare che gli negò quasi un anno di carriera (Bettega tbc, lo insultavano i granata) e l'incidente d'auto nei pressi di Santhià, nel novembre 1984, proprio quando sembrava che stesse per accordarsi per un contratto part-time con l'Udinese, convinto da Ariedo Braida (oggi diesse del Milan) di cui divenne amico nell'anno in cui lo mandarono al Varese «a farsi le ossa», con Niels Liedholm allenatore alle prime armi. Da dirigente, Bettega ha affiancato la sua lunga esperienza come terzo nella Triade ad altre attività extrasportive: è stato tra i soci dell'azienda che aprì il primo McDonald torinese, in piazza Castello, ed è tuttora consigliere della Villanova Spa, la società di logistica dal cui palco riservato si guardava le partite casalinghe della Juventus. Dalla prossima, dovrà scendere nelle poltroncine dirigenziali. Negli anni vissuti a fianco di Moggi e Giraudo è stato sempre leggermente defilato rispetto agli altri due, ma non ha rinnegato i loro metodi, la loro filosofia, la loro politica. Finì in copertina tre volte. La prima: dopo la sconfitta nella finale di Champions League di Monaco, contro il Borussia Dortmund, disse che la Juve aveva perso «perché la federazione tedesca conta più della nostra», frase infelice che però segnalava il modo di pensare della Triade, secondo la quale le vittorie si ricamavano soprattutto nel Palazzo, prima che in campo. La seconda: a Bologna, dopo una vittoria juventina favoreggiata da diversi "aiutini", rispose a gestacci agli insulti del pubblico rossoblù. La terza: pianse nel giorno dell'ultima partita casalinga della Triade, appena scaricata dalle parole abrasive di John Elkann mentre Calciopoli stava esplodendo. Da allora, non si è più concesso sortite pubbliche, lavorando per un anno, e nell'ombra, con Blanc e Secco e poi soffrendo la Juve da lontano, pur senza perdersi mai un'assemblea degli azionisti. In quella del 2008 molti soci di minoranza ne invocarono il ritorno, uno di loro rinunciò al suo intervento in cambio di una standing ovation per Penna Bianca, la ottenne, ma scatenò anche la reazione velenosa di Blanc: «Mi criticate per gli acquisti di Tiago e Almiron, ma erano operazioni concordate anche con Bettega che era mio consulente, e lui capisce di calcio. Non è stato l'uomo di tennis a decidere: sono state scelte condivise». Sembrava la pietra tombale sulla storia juventina di Bettega, invece non è stato così: Blanc ha avuto di nuovo bisogno di lui e s' è ingoiato quella frase.