Il gigante buono che amava fare gol

Gianni Mura, "La Repubblica", 5 settembre 2006

Quando muore uno come Giacinto Facchetti (un hombre vertical, un campione, una bandiera) ci si sente un po' più poveri. Non solo gli interisti, ovviamente: Facchetti è stato il capitano della nazionale per 94 partite, quando nessuno chiedeva ai calciatori di cantare l'inno, ma a vederli allineati, impalati si era certi che avrebbero dato tutto e che il primo a rimproverare chi sgarrava sarebbe stato lui, il capitano. Perché Facchetti, lo dico per chi non l'abbia visto giocare, nel calcio significava correttezza, serietà, lealtà, anche potenza, cattiveria mai. 

Una sola espulsione in tutta la carriera, per proteste. Un gigante buono, come John Charles. Ma Charles era attaccante, Facchetti difensore. Lo si può paragonare a Scirea, semmai. 

Facchetti era un difensore che attaccava, appena poteva. Il verbo fluidificare non era ancora entrato in un calcio più semplice e chiaro (più umano, vorrei aggiungere): difesa, attacco, avanti, indietro. In un'Inter (e un'Italia) sotto l'accusa costante di protervia catenacciara, Facchetti era la smentita vivente. Di un terzino-attaccante avevo già sentito parlare dai colleghi più anziani, era Virgilio Maroso. E nel Lanerossi Vicenza avevo visto Giulio Savoini. 


Facchetti era più alto (1.88). E biondo. Scopigno diceva che in campo i biondi si notano di più, in Italia, e a quei tempi era vero, come oggi nella Svezia o nell'Ucraina si notato di più i bruni. Facchetti giocava in difesa già da ragazzo e già da ragazzo avanzava cercando il gol, a Treviglio. Ultimo di sette figli (cinque femmine e due maschi), figlio di Felice (ferroviere, come il padre di Rivera) ed Elvira, un personale di 8"9 sugli 80 metri a 17 anni, quando primatista era Ottolina con 8"8. Lo voleva l'Atalanta quando Giacinto aveva 14 anni ma la famiglia s'oppose: troppo giovane per andare a vivere in una città tentacolare come Bergamo. Più in là, scattò il sì all'Inter. Una vita all'Inter, solo una parentesi dirigenziale all'Atalanta, e una morte da presidente dell'Inter.

"El pica mia, l'è trop bù", non picchia, è troppo buono diceva suo padre agli amici, all'osteria del Colleoni, e di questo non picchiare Facchetti figlio ha fatto una sorta di comandamento. Sembrerà strano, oggi che ogni palla alta contesa vale una gomitata all'avversario, ma c'era più correttezza nel calcio senza moviole. Nel senso che potevano esserci entrate terribili, ma non sistematiche, solo in situazioni estreme. Oggi riescono a ricostruire un ginocchio sfasciato (vedi Tommasi), allora si smetteva di giocare per un semplice menisco (vedi Radice). E questa precarietà del lavoro (credo, ma è da dimostrare) influiva sul rispetto degli avversari: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Facchetti conservava una foto del padre, con la squadra di calcio allestita sotto la naja. Per ognuno c'è scritto un soprannome e quello di Felice Facchetti era Ammazzacristiani. C'entra Freud? Non lo so.


Ho trovato questo particolare mesi fa, leggendo "Ribot e il menalatte" di Andrea Maietti, sottotitolo "Viaggio intorno a Giacinto Facchetti". Perché Facchetti una sua biografia non l'ha mai voluta, lui che era finito sulla copertina di "Azzurro tenebra" di Giovanni Arpino, e ne era protagonista mestamente positivo. Maietti, lodigiano e interista, incassato il rituale "no, grazie, meglio di no", ha scelto per il titolo un'immagine breriana, quella del purosangue umiliato a tirare il carretto del lattaio, ovvero del centravanti potenziale ("il mio centravanti privato") stretto nei panni del difensore di fascia. Giuseppe Meazza spediva il giovanissimo Facchetti nell'area avversaria quando il risultato era contrario, nell'ultimo quarto d'ora (buttarla in mezzo, qualcosa succederà) e oggi si fa ancora così, ma il bello di Facchetti è che molti gol li ha segnati su azione manovrata, non da palla inattiva, e forse il più bello resta il 3-0 al Liverpool, su apertura di Corso, con Mazzola lanciato sulla destra. Maggio 1965.

Facchetti, si direbbe ora, attaccava lo spazio. A me faceva venire in mente l'arrivano i nostri del Settimo Cavalleggeri. Prima ancora, Garrone. Oppure, sarà stato l'effetto di un padre carabiniere e interista, Salvo D'Acquisto. Uno che si prendeva le sue responsabilità e anche quelle degli altri. Uno che non portava per caso la fascia da capitano, e la portava come uno sceriffo la stella. Uno che avuto in regalo una palla (non un pallone) la mattina di Natale del '52, è uscito a giocarci e dopo mezzora era bucata, contro un fil di ferro. Uno che, come Helenio Herrera, maestro mai rinnegato, teneva dal '77 una specie di diario e sulla prima pagina aveva messo una frase di Tolstoj: "Più crederemo dipendere solo da noi l'esito delle nostre azioni, più questo sarà possibile". Uno capace di dire "no, grazie, meglio di no" a Bearzot che lo avrebbe portato volentieri nel '78 in Argentina, ma lui non si sentiva all'altezza, dopo un pesante infortunio.

Paradossalmente (ma solo inizialmente) a non percepire la profonda serietà di Facchetti fu Giovanna, sua moglie. Si erano conosciuti in una balera a Rivolta d'Adda (lei è di Spino), suonava Fausto Papetti. Appuntamento a Milano, dopo qualche giorno. Lui è puntuale, lei non si fa vedere: può essere serio un calciatore di serie A? Cinque anni di fidanzamento le hanno fatto poi cambiare idea. Due bambine, quindi due maschi. Uno ha provato a fare il portiere, adesso è attore, l'altro gioca in attacco. Una delle ultime annotazioni sul diario di Facchetti, autunno scorso: "Bisogna fare in modo che gli ideali sportivi ed etici abbiano sempre la meglio su considerazioni puramente finanziarie".

Quando avevo scritto il suo nome, con pochi altri, indicandolo come buon presidente federale, mi aveva telefonato per ringraziare, cosa che non usa più. Altre volte, da presidente dell'Inter e con molto garbo, per dirmi che ero andato giù troppo duro con uno dei loro (fosse Materazzi o Recoba, o Adriano o Stankovic). Per me era facile replicare: tu una cosa del genere non l'avresti mai fatta. E lui: "Sì, ma bisogna capirli, non sono più i nostri tempi. Ti ricordi? Ci giravano intorno così pochi giornalisti che con qualcuno c'era il tempo di fare amicizia. E i divi erano alla tv o al cinema. Adesso è più facile montarsi la testa. Ai nostri tempi andare in prima pagina sulla Gazzetta era un evento per pochi, da festeggiare, adesso bastano due gol o una cavolata, devi tenerne conto". Ne tengo conto, ma non posso impedirmi di risentire il profumo di pane di certe chiacchierate di allora, senza barriere né addetti-stampa, e di fare paragoni. Facchetti diceva che certe regole (e il loro rispetto) s'imparano all'oratorio, e poi tutto è conseguente, quasi un'abitudine all'onestà.

Sarà un caso, ma quei difensori rocciosi portavano i nomi di un'altra Italia (e anche i valori, temo). Tarcisio, Aristide, Armando, Giacinto.

Capitano di pulizia e di forza, capitano sempre a testa alta, capitano onesto e chiaro, capitano senza arroganza, voglio salutarti con un silenzio più lungo d'un minuto. E la promessa di tener conto (stavolta sì, prometto) del fatto che con gli innamorati del calcio in cui credevi ti piangeranno i coccodrilli, i topacci, i simulatori, gli imbroglioni, i trafficoni, gli squali, i camaleonti, i ladri, i bari, tutti quelli che hanno ridotto il calcio così com'è, quelli che ai nostri tempi si sarebbero vergognati a uscire di casa e adesso dettano legge e morale. Farò finta di non sentirli, capitano, è il solo regalo che ormai posso farti.